La questione religiosa, per quanto possa essere determinante per una singola persona, non dovrebbe comunque essere avallata in alcun modo dalla legge.
Difatti c'è una sfumatura che non mi convince: quando si esige che un medico rispetti l'obiezione di coscienza del paziente, lasciandolo morire anche nel caso in cui la cura lo porterebbe a una guarigione certa, si è convinti di "sottrarre" la vita e la morte dell'individuo all'arbitrio del medico che, in teoria, non avrebbe il diritto di tale decisione.
Ma quando il medico vede morire un paziente, e pur sapendo che basterebbe un semplice procedimento per sottrarlo a tale morte non lo attua, il suo "starsene a guardare" non è a sua volta l'esercizio di un arbitrio sulla vita e sulla morte?
Qualcuno risponderebbe: no, perché l'obiezione di coscienza del paziente, se messa per iscritto, solleva il medico da tale responsabilità. Beh... mica tanto!
Innanzitutto, non mi risulta che nel Giuramento di Ippocrate, che i medici fanno ancora (e non certo perché non abbiano nulla di meglio da fare) sia menzionato qualcosa come il rispetto di un'eventuale "obiezione di coscienza". Potrebbe e dovrebbe forse esserci, ma di fatto non c'è; e chissà che non sia meglio così, dal momento che se già la legge dello Stato è quanto di più "aggirabile", figurarsi se non lo sarebbe una clausola di questo genere all'interno di un giuramento professionale.
Fatto sta che dalla professione medica, da quando esiste, non ci si aspetta che agisca secondo criteri biblici, ma, a quanto pare, neppure che si sostituisca con i principi e con la pratica a qualsivoglia libro di fede: il medico fa il medico, punto e basta. E tutto ciò che non si riconduce direttamente alla collaborazione tra medico e paziente per la cura di una malattia, non è competenza della medicina.
Ma dirò di più: il Giuramento di Ippocrate, nella forma moderna, recita:
«(giuro) di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento».
Alla faccia! Le costrizioni di un libro di fede cos'altro sono, se non un "indebito condizionamento" nei confronti della professione medica?
Poi ancora:
«di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza (...)».
E qualcuno potrebbe dire: vedi? "tutela della salute fisica e psichica"! Beh sì, ma un medico esperto in pronto soccorso cosa ne sa della salute psichica del paziente? E anche uno psicologo, per quanto bravo, può giurare che nel momento esatto in cui il paziente, per libera scelta, rende l'anima a Dio non cambia idea? Lo sappiamo tutti che la vita umana tende per istinto all'autoconservazione: chi mai può essere certo al di là di ogni ragionevole dubbio che le convinzioni inculcate da una fede bastino a zittire quell'istinto?
Poi:
«di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte di una persona».
Beh... questo si commenta da sé. Non lo so davvero fino a che punto è naturale che un medico dimentichi questo non poco importante passaggio del suo Giuramento in nome di "condizionamenti" cui ha "giurato" di non sottostare.
Ad essere più soggetta all'altalena delle ideologie è piuttosto questa parte:
«di astenermi da ogni accanimento diagnostico e terapeutico».
Molto semplice, all'apparenza. Ma in realtà siamo ben lungi dall'aver dato una definizione chiara di cosa sia l'"accanimento terapeutico".
Proprio ieri affrontavo quest'argomento con un gruppo di persone non obiettrici (addirittura atee, credo) ma convinte che il ricevere sangue o organi di persone estranee sia per l'obiettore come ricevere un accanimento terapeutico, in quanto egli si ritrova costretto a vivere fino alla morte la sensazione dell'"impurità".
Nessuno qui vuole mettere in dubbio i sentimenti e i moti della coscienza di nessuno; però, a mio modo di vedere, un medico che voglia agire in considerazione di tali situazioni interiori e squisitamente personali non può farlo senza permettere, con il proprio stesso assenzo, che la fede "condizioni" la propria attività, ossia senza permettere che i due universi, scienza e fede, si fondano arbitrariamente per soddisfare le personali necessità di un individuo: in fin dei conti, se di coscienza parliamo, il paziente non è certo l'unico ad averne una, e se la mia coscienza di medico mi suggerisce che avallare il "suicidio" di un paziente non mi permetterebbe più di guardarmi nello specchio, perché mai la mia obiezione dovebbe valer meno di quella del paziente suicida?
Altra faccenda, con ben altri risvolti, è quella che, secondo la mia opinione, rientra più legittimamente nella definizione di "accanimento": l'attività medica volta a prolungare nel paziente non tanto uno stato di sofferenza fisica, ma piuttosto una condizione di "mancanza di dignità".
Apro una parentesi. Ciò che mi sorprende, e non poco, è che la difesa strenua dell'obiezione di coscienza del paziente arriva spesso da quelle stesse persone che in altre situazioni esigono la totale indipendenza del mondo laico (con le sue leggi) da quello religioso (con le sue chiusure mentali). Mi domando: queste persone, così brave a "comprendere il prossimo", si sono mai domandate come la penserebbe un obiettore di coscienza se reso psicologicamente indipendente dal mondo che l'ha indottrinato? È più o meno lo stesso problema che si pone nei confronti delle donne islamiche costrette a indossare il burqa; ma lasciamo stare.
Non posso però non chiedermi anche: tutti questi "empatici", come la penserebbero se ad impedire trasfusioni e trapianti non fosse Geova, ma il Dio cattolico? Penso di avere, oggigiorno, un motivo per farmi questa domanda: dare del lobotomizzato a un cattolico che sceglie di restare vergine fino al matrimonio và bene, ma se Geova dice "vaffancùlo e crepa anche se non è il momento"... nulla da eccepire; come mai?
Sono convinto che sulla questione dell'accanimento terapeutico sia alquanto improbabile che gli uomini riescano un giorno a raggiungere un compromesso: è qualcosa che và troppo al di là delle nostre "piccole" leggi per pretendere di costringerla entro le clause di un codice. Ogni volta che la cronaca solleva il caso di un uomo o una donna costritti dalle circostanze a una vita che nessuno (se non i soliti Ratzinger e Magdi Allam) si sentirebbe di definire vita, và a finire sempre nello stesso modo: mentre la gente litiga e si insulta, gli interessati fanno ciò che era previsto dall'inizio. Si pretende, in sostanza, di portare il dramma nella vita sociale perché qualcuno, non si sa bene chi, scriva una legge o un comma che permetta di fare ciò che, in realtà, si è sempre fatto anche senza leggi né commi. Si urla alle ingerenze della Chiesa: non che a me vada a genio la posizione di Roma in merito al concetto stesso di "vita", ma con tutte le leggi in vigore, a partire da quella dell'aborto, che non sembrano aver preso troppo sul serio le recriminazioni d'Oltretevere, deve pur esserci una ragione se non abbiamo ancora una legge che "regoli" la realtà di quella sottile linea tra vita e non-vita, dando alla non-vita quell'ultima spintarella che le manca per diventare morte. Mi chiedo come si possa ancora pensare che una legge, per quanto virtuosa, risolverebbe una questione di tale portata.
Ma allo stesso tempo non capisco come si faccia a chiudere gli occhi davanti all'enorme differenza che intercorre tra la non-vita di una Eluana Englaro e la presunta non-vita di un testimone di Geova obiettore. Mi pare persino offensivo stare qui a parlarne.
Ed è offensivo nei confronti della professione pretendere che un medico accetti situazioni dettate unicamente da convinzioni non empiriche (lo dico da credente). La "favola" di Abramo e Isacco ci indigna ormai tutti allo stesso, specie se presa alla lettera; l'obiezione di coscienza di chi rifiuta una trasfusione o un trapianto... quella no, non c'indigna, perché quella la liquidiamo con il nome di "libertà di scelta".